Nuove tribù digitali: quando sul web le donne diventano merce di scambio

Il gruppo Facebook “Mia Moglie”, dove oltre 32mila uomini condividevano foto intime di donne senza consenso, è stato chiuso dopo numerose segnalazioni, ma i membri hanno presto riaperto altrove. Un caso che mostra come la violenza di genere online rifletta ancora modelli culturali tossici.

Nuove tribù digitali: quando sul web le donne diventano merce di scambio
fonte immagine: Il Post
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20 Agosto 2025 - 18.31 Culture


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di Vittoria Calabrese

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È stato chiuso oggi, dopo svariate segnalazioni a Meta e Polizia Postale, il gruppo Facebook ‘Mia Moglie’ denunciato negli scorsi giorni sui social da Carolina Capria, autrice, scrittrice e sceneggiatrice, che aveva invitato i suoi follower a segnalare questa community dai contenuti agghiaccianti.

Più di trentamila uomini condividevano foto delle mogli – o presunte tali – fotografate senza esserne consapevoli. Donne in casa, a letto, e persino al mare, nude o semi nude, pubblicate senza il loro consenso con frasi a descrizione come: “Oggi la trovate così” o “Cosa fareste a mia moglie?”, tutte date in pasto agli altri partecipanti che sotto commentano in maniera umiliante ed esprimendo le loro più perverse fantasie sessuali.

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Dopo le prime segnalazioni sul gruppo, alcuni invitavano a prestare attenzione, poiché i nomi degli utenti erano visibili. Altri, invece, hanno condiviso i profili di chi aveva chiesto di segnalarlo a Meta: è il caso di una ragazza, il cui post di denuncia è stato rilanciato da un partecipante che incitava gli altri scrivendo: ‘Andate a insultarla’. C’è anche chi incoraggia a continuare l’attività su Telegram, considerata forse una piattaforma più sicura.

La chiusura del gruppo è stata, purtroppo, del tutto inefficace da punto di vista pratico; i componenti, infatti, non hanno atteso tanto a lungo prima di creare un altro canale, stavolta privato, dove portare avanti le loro “attività”.

La presenza di questi gruppi non è una novità nel panorama digitale: un’inchiesta svolta da una giornalista dell’emittente tedesca NDR a inizio anno ha portato alla luce diversi canali Telegram – alla quale partecipavano circa settantamila uomini – dove venivano scambiati consigli su come compiere violenze sessuali senza essere scoperti. In allegato venivano inoltrati anche foto e video di vittime inconsapevoli e incapaci di reagire.

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E ancora, Black pill e Incel (celibi involontari, raccontati di recente nella serie ‘Adolescence’) che hanno dato origine alla manosphere, ovvero gruppi, chat e forum che promuovono una mascolinità violenta che sfoga sulle donne la propria frustrazione, arrivando a individuarle come ‘non persone’ in quanto colpevoli della discriminazione nei confronti degli uomini e pericolose per la loro salute fisica e mentale.

Infine, il caso emblematico di Giselle Pelicot che ha portato sul banco degli imputati cinquantuno uomini accusati di averla violentata con la complicità del marito mentre lei era priva di sensi e, dunque, incapace di reagire. La donna qualche tempo fa ha dichiarato: “Esprimo qui soprattutto la mia volontà e la mia determinazione a cambiare questa società”. Un cambiamento nel quale avevamo sperato tutti ma che, evidentemente, neanche un caso così eclatante è stato capace di scatenare.

Ritornando al caso italiano, il filosofo e docente Francesco D’Isa e la pedagogista specializzata nel contrasto alla violenza di genere Alessia Dulbecco, hanno fatto notare quanto a mantenere vivo quel gruppo non fosse tanto il contenuto delle immagini – molto spesso amatoriali e dal contenuto non esplicitamente erotico – ma le modalità in cui quelle immagini sono state ottenute, cioè nella totale inconsapevolezza della vittima: “L’eccitazione non deriva dal corpo fotografato, ma dal gesto di dominio che l’immagine rappresenta”.

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Il tutto – forse anche non a caso – è accaduto in quel non luogo che è il web; proprio lì dove nascono e proliferano le tribù del nuovo millennio, cartina tornasole dei problemi sociali che esistono fuori dagli smartphone e che ostinatamente non vogliamo né vedere né affrontare.

Se per decenni è stato celebrato il modello machista dell’uomo “che non deve chiedere mai”, allora anche il consenso finisce per essere messo in secondo piano e percepito come una minaccia alla propria mascolinità. Per alcuni uomini, ciò che appare più eccitante non è la condivisione, ma il prendere senza lasciare spazio a un eventuale “no”. Un gesto che tradisce la fiducia all’interno di una relazione (matrimoniale) pur di colmare il proprio bisogno di affermazione e di potere. Tutto questo viene compiuto persino al prezzo di ridurre la donna a un oggetto da esibire, accanto all’aggettivo “mia” che diventa un lasciapassare per disporne a proprio piacimento, mentre l’unico vero guadagno resta l’approvazione complice e meschina di altri uomini.

L’introduzione del reato di femminicidio, previsto del disegno di legge del 7 marzo 2025, è sicuramente un segnale positivo che tenta di contenere il fenomeno della violenza di genere, ma scalfisce solo la punta di un iceberg molto più vasto e molto più profondo. Non basta punire, urge educare.

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Affinché la speranza di cambiamento espressa da Gisèle Pelicot possa davvero avverarsi è necessario decostruire il modello maschile per come lo conosciamo oggi, puntando su un’educazione affettiva e sessuale che non si limiti a spiegare la biologia e la scienza, ma che si impegni – e si impegni veramente – nel preparare le nuove generazioni alla gestione del consenso e del rifiuto e al rispetto (quello vero) del corpo e delle libertà altrui.

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