Gianni Berengo Gardin e il suo sguardo in bianco e nero sull'Italia

Una breve storia del "fotografo dell’uomo" che ha raccontato il nostro Paese tra memoria, cambiamenti sociali e lotte civili in oltre sessant’anni di immagini analogiche.

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8 Agosto 2025 - 21.30 Culture


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Gianni Berengo Gardin, grande maestro e cantore italiano, ci ha lasciati poco prima di compiere 95 anni. Un lungo viaggio il suo, durato oltre sessant’anni, in cui ha fotografato il cuore e l’anima dell’Italia: dai baci sotto i portici di San Marco ai volti riflessi nei finestrini dei vaporetti, fino agli straordinari ritratti di gruppi familiari contadini. Ogni scatto è stato un pezzo di storia e verità. Non a caso il grande fotografo Sebastiao Salgado, anche lui noto per immagini di denuncia dal forte impatto emotivo, lo definì: “fotografo dell’uomo”.

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Il primo incontro con la macchina fotografica avvenne per caso, durante la giovinezza, quando – contrario al fascismo – prese la Leica della madre e, invece di consegnarla ai tedeschi come imposto, iniziò a fotografare ciò che lo circondava. Quel gesto fu l’inizio di una vita fatta di immagini che mescolavano le sue vicende personali con quelle di un’Italia che cambiava.

Dalla Liguria si trasferì a Roma occupata, poi a Venezia, dove la famiglia si era spostata dopo il ritorno del padre dalla guerra, in cui per sopravvivere fece anche il bagnino. Visse e lavorò anche in Svizzera e a Parigi, dove conobbe figure fondamentali della fotografia come Robert Doisneau, Daniel Masclet e Jean-Paul Sartre. Tornato a Venezia fu “folgorato” dalla rivista Life, consigliatagli da Cornell Capa, fratello del celebre Robert. Iniziò così la sua carriera, lavorando con Longanesi, al Borghese e soprattutto al Mondo di Mario Pannunzio, con cui sentiva grande affinità.

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Negli anni ’60 documentò i profondi cambiamenti sociali: i migranti alla Stazione Centrale di Milano, le contestazione giovanili, gli scontri tra studenti e forze dell’ordine, come nell’iconico scatto della Celere in piazza San Marco. Le sue foto sui manicomi lo portarono a incontrare Franco Basaglia. Fu vicino anche a molti scrittori e imprenditori illuminati, tra cui Adriano Olivetti. Negli anni ’70 lavorò con Cesare Zavattini a Luzzara, mentre negli anni ’80 iniziò un sodalizio con Renzo Piano, seguendolo nei suoi cantieri a Genova e nel mondo. Negli anni ’90 raccontò la disperata allegria delle comunità sinti, poi le risaie del Vercellese nel nuovo secolo e, infine, la sua ultima grande battaglia civile contro le Grandi Navi, tornando a Venezia negli anni 2010.

Una costante: il bianco e nero. Per lui, “il colore distrae”, diceva con fermezza. E rigorosamente analogico: ogni foto, sempre su pellicola. Anche negli ultimi anni, la sua opera non ha mai smesso di incantare. Solo quest’anno, tante le mostre a lui dedicate: fino al 28 settembre, la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia ospita “Gianni Berengo Gardin fotografa lo studio di Giorgio Morandi”, con 21 scatti che raccontano i luoghi in cui il pittore emiliano ha creato i suoi capolavori. A Volterra, sempre fino a fine settembre, una selezione di 24 sue fotografie è accompagnata da testi di amici e colleghi come Carlo Verdone, Marco Bellocchio, Mario Calabresi, Lea Vergine, Renzo Piano e Salgado stesso.

Un’altra importante esposizione si è tenuta a Londra, grazie all’Istituto Italiano di Cultura diretto da Francesco Bongarrà. Fino a fine giugno, nella sede di Belgrave Square, la mostra Insulae Aqua ha messo a confronto i suoi scatti in bianco e nero con quelli a colori di Filippo Romano, ottenendo grande successo. “Nel Regno Unito il suo lavoro era molto apprezzato”, ha ricordato Bongarrà. Instancabile, la sua arte ha continuato ad affascinare il pubblico fino alla fine.

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