Di Manuele Calvosa
Dopo oltre sette anni, Better Call Saul chiude i battenti, e lo fa in grande stile. Così come Breaking Bad, lo spin off dedicato al personaggio di Saul Goodman è stato capace di far innamorare il proprio pubblico, anche grazie ad un’estetica registica perfetta e ad una narrazione originale e accattivante.
L’ambizione di Gilligan e Gould ha portato la serie ad un livello inarrivabile: i due non hanno risparmiato sulla qualità del prodotto, ma si sono concessi il lusso di fare tv d’autore, concentrandosi su ogni ̶ apparentemente inutile ̶ dettaglio che presto si è rivelato pedina di una partita la cui conclusione ha lasciato tutti incollati allo schermo.
Questa volta, però, il percorso è inverso: se in Breaking Bad abbiamo visto il professore di chimica, Walter White, sprofondare all’inferno diventando uno dei criminali più pericolosi d’America ̶ attraverso un percorso fatto di illegalità e omicidi ̶ in Better Call Saul è la redenzione dell’avvocato il vero punto focale.
In Breaking Bad Saul Goodman si presenta corrotto fino al midollo, spregiudicato e senza scrupoli nel proporre omicidi come soluzione per “non avere problemi”. In Better Call Saul la situazione cambia. L’obiettivo è stato chiaro fin dall’inizio: umanizzare il personaggio, ribaltandone il destino già segnato.
Ciò che infatti emerge nella serie è la psicologia di Jimmy McGill (vera identità di Saul), costantemente messa alla prova da quel bisogno atavico di raggirare il prossimo per scopi personali, per denaro e per divertimento.
Bob Odenkirk ha mostrato attraverso i personaggi di Jimmy McGill, Saul Goodman e Gene Takavic l’espressione delle diverse personalità di una maschera sfaccettata e profonda. L’attore ha saputo trasporre sullo schermo tutte le sue sfumature, accompagnandoci in un viaggio narrato e realizzato in modo semplicemente incredibile.
Agli autori va dato senz’altro il merito di aver saputo costruire attorno a Jimmy una storia fenomenale che nella serie originale era partita da una linea comica marginale. Tuttavia, la prova attoriale di Bob Odenkirk è di livello elevatissimo ed è altrettanto chiaro che senza le sue capacità probabilmente le cose non sarebbero state così epiche.
Better Call Saul è un viaggio nello spazio e nel tempo. Un viaggio nel cambiamento e nel ribaltamento di fronte.
Un viaggio nella straziante storia d’amore tra Kim e Jim racchiusa in una sigaretta e in uno sguardo d’intesa che (apre e) chiude dolorosamente l’intera opera. La storia ripercorre quasi dal principio la vita dell’uomo che voleva essere imperatore, scaltro e sempre un passo avanti agli altri, ma al contempo condannato dalla sua stessa arroganza da uomo insicuro.
Talmente furbo da presentarsi davanti al procuratore distrettuale distruggendo in modo plateale la possibilità di un ergastolo, ottenendo il minimo di una pena scritta a tavolino, con l’incredulità di Bill Oakley, quel vecchio rivale scelto da Saul per essere il suo consulente legale di un processo che altro non è che la sua personale rivalsa.
Insomma, l’ennesima riscossa per Saul è arrivata, l’ennesima vittoria, l’ennesima fuga, anche se alla fine il “Ti sei fatto beccare così!” si ripete con veemenza quasi a sottolineare la beffa del destino. Saul Goodman, del resto, è destinato alla vetta e al successo. Lo abbiamo amato e lo abbiamo odiato per questo.
Ma se questa è una storia d’amore, allora è l’amore stesso a dare dinamica e a scombinare le carte in tavola. E quell’amore non può che avere le fattezze di Kim Wexler (Rhea Seehorn).
E’ proprio negli attimi finali, quelli che anticipano la fine di questa incredibile epopea televisiva, che ci rendiamo conto di quanto questa serie non può, e non deve, avere paragoni. E’ proprio in quegli attimi che la storia prosegue veloce, andando avanti, seppur dandoci la sensazione di srotolarsi all’indietro ritornando al punto di partenza.
Solo per un attimo rieccoci nel 2015. Va tutto bene: Jimmy è un grande avvocato, ha sposato Kim e trovato un equilibrio con il fratello Chuck. Questa sensazione cede il passo alla realtà nuda e cruda: sappiamo tutti che purtroppo non è andata così.
Certo, l’eco di Walter White e di Lalo Salamanca è ancora troppo lontano e tutto questo si riaccende ad un passo dalla fine, come se fosse tutto un grande flashback involontario. E’ tornato l’equilibrio, è tornato il 2002 (anno di inizio dell’arco temporale della serie Tv) e con lui lo sguardo malinconico di Jimmy McGill, che ha ucciso definitivamente Saul Goodman a colpi di coscienza, seppellendolo insieme ai ricordi di un uomo sbagliato: ora sì che “va tutto bene amico” (It’s all good man).
In quegli ultimi minuti, il finale sembra rimandarsi all’infinito e noi spettatori continuiamo a ripetere che “non è finita finché non è finita”. Tuttavia il tempo scorre e la storia si avvicina ad un incrocio che è già un tripudio, e che lascia intravedere il dramma nei pochi secondi di un’ultima sigaretta condivisa.
Prima che ce ne rendiamo conto, improvvisamente, giunge il momento di quel tenero e amaro addio. Il dado è tratto: stomaco e cuore sono in tumulto. Ora è impossibile uscire indenni da questo tornado. Forse nemmeno se chiami Saul.