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Sulla “Netflix della cultura italiana” è polemica: gli artisti dello spettacolo si dicono perplessi

La piattaforma digitale nazionale annunciata dal ministro della Cultura Dario Franceschini sarà l'ennesima dispersione di fondi pubblici? Ne parlano un attore, un musicista, una ballerina, un regista

Sulla “Netflix della cultura italiana” è polemica: gli artisti dello spettacolo si dicono perplessi
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11 Gennaio 2021 - 15.04


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di Linda Salvetti

Molto l’interesse, e molte le critiche, sta suscitando l’idea di un’offerta culturale a pagamento sul web: quella cioè che, forse con estrema sintesi comunicativa, è stata definita nel lancio come la “Netflix della cultura italiana”. Una piattaforma, va detto subito, che nasce con la partecipazione di fondi pubblici. Una domanda agita il mondo dello spettacolo: questa piattaforma digitale nazionale, annunciata dal ministro dei beni e attività culturali e del turismo Dario Franceschini, riuscirà ad arricchire la proposta culturale e promuovere la produzione culturale del nostro paese o sarà l’ennesima dispersione di fondi pubblici? I pareri sono discordi: chi elogia l’iniziativa e chi avanza seri dubbi. In questo caso è sempre bene tastare il polso a quelli che dovrebbero essere i primi utilizzatori di questa nuovo strumento di raccordo tra chi produce e chi consuma arte e spettacolo. Ho ascoltato, per questo, più pareri: quelli del musicista Simone Graziano, della ballerina Caterina Bianchi, del regista Francesco Martinotti e dell’attore Leo Gullotta.

La piattaforma, lanciata una prima volta nell’aprile del 2020, e poi di nuovo riproposta a novembre, è stata costituita  in tempi record una nuova società controllata al 51% da Cassa depositi e prestiti (Cdp) proprio mentre Fabrizio Palermo, amministratore delegato, è prossimo alla fine del suo mandato. Il restante  49% è della Chili Spa, l’azienda italiana operante nella distribuzione di film e serie tv, fondata nel 2012 da Stefano Parisi. Un investimento che fa rumore, non fosse altro per i 10 milioni di euro pubblici messi a disposizione dal ministero ai quali si aggiungono 9 milioni di Cdp e 9 milioni da parte di Chili. Sono stati esplicitati gli obbiettivi di questo consistente investimento: “Con questi soldi faremo la Netflix della cultura italiana” – si legge in uno dei primi comunicati stampa – “che sia musica, teatro, lirica, opere e anche mostre; una piattaforma digitale per vendere i prodotti dei nostri artisti” specie in questo momento di emergenza pandemica.

Però molti artisti non hanno esultato, anzi le perplessità sono state molte. Leo Gullotta, in un’intervista concessa a Globalist dice: “Siamo fermi. Non è così che funziona il mondo dell’arte e dello spettacolo. È alla ricostruzione che dobbiamo pensare; alla riapertura dei luoghi di cultura secondo tutte le nuove misure anti-Covid”. Un filo rosso che lega anche il pensiero del musicista fiorentino Simone Graziano, che è presidente dell’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz: “Non è un male creare una piattaforma capace di divulgare cultura. Lo streaming sicuramente ha una valenza divulgativa importantissima. Ma il problema vero è ‘che cosa si vuole veramente divulgare? Quale sarà il contenuto?’ Questa piattaforma ricreerebbe delle barriere, di matrice tutta italiana, all’interno degli stessi generi musicali e teatrali. Una divisione che vorremmo abbandonare. Non era meglio potenziare il patrimonio televisivo pubblico? Ci sono già dei canali di divulgazione ad altissimo livello e contenuto, con podcast bellissimi e una valenza culturale molto alta. C’è poi il dramma che noi dello spettacolo siamo tutti a casa da febbraio. Abbiamo 209 miliardi di euro di Recovery Fund e solo l’1,9% è destinato alla cultura. Quindi anziché spendere 10 milioni di euro nella “Netflix della cultura” investiamoli sulla riapertura di tutti i luoghi di spettacolo in sicurezza, dalle sale da concerto al teatro nazionale, a quello di prosa. Un mondo senza cultura, è un mondo vuoto e triste. E fa paura che si pensi a dare lo zuccherino, ma non si pensi a nutrire davvero il pubblico che desidera soprattutto partecipare.”

Anche dalle nuove generazioni dell’étoile alla Scala di Milano, per le quali l’uso dei nuovi media e dello streaming è parte della comunicazione di tutti i giorni, si rivela questa necessità di riaprire il sipario al pubblico più che affidarlo alla tecnologia. Tuttavia, come ci ha rilasciato la ballerina Caterina Bianchi: “Bisogna andare di pari passo con i tempi. Certo il Teatro alla Scala, è un tempio unico al mondo e legato da sempre ai suoi fedeli estimatori, ma bisogna trovare anche nuove vie per condividere l’arte, soprattutto con il pubblico più giovane e forse l’utilizzo di media a loro più vicini, potrebbe suscitare un interesse diretto. Purtroppo oggi difficilmente le nuove generazioni si avvicinano al mondo del teatro”. E aggiunge: “Non sappiamo ancora molto dell’idea di Franceschini. Fino ad ora tutte le registrazioni sono state fatte dalla Rai e hanno coinvolto produzioni molto consistenti.”

Qualcun altro si domanda il perché aprire una piattaforma privata per “vendere” la cultura, quando si potrebbe, invece, investire in maniera diretta, nel mondo dell’arte e dello spettacolo per far risalire le sorti della cultura in generale e di tutti gli artisti. Stando alle notizie raccolte dall’Espresso: “non c’è niente di artistico nel progetto Chili/Cdp. Chili è l’unica che ci guadagna. Altro che 9 milioni, ne sgancia (forse) meno di 3: i 6 milioni sono simbolici e riguardano la struttura digitale che Chili offre per creare la piattaforma. L’azienda italiana ha costituito Chili Tech riversandoci 32 dipendenti dei suoi 87; e quest’ultima gestirà la manutenzione e lo sviluppo della piattaforma Chili/Cdp. Se non fosse chiaro: il primo cliente di Chili/Cdp è la medesima Chili”. Carlo Tecce, autore dell’articolo, aggiunge anche che “Il rischio economico è tutto a carico dei teatri, dei musei, dei cantanti, delle compagnie. Chi vuole un posto nel catalogo della piattaforma deve procurarsi da solo lo spettacolo e pregare che ingrani.”

Il regista Francesco Ranieri Martinotti avanza una proposta  che mira proprio a“ evitare di far profitti privati col denaro pubblico” e la spiega così: “La piattaforma che ha immaginato Franceschini può essere un inizio ma non può fermarsi a un’esperienza nazionale: deve rientrare in un progetto europeo più ampio, con la capacità di fare una forte alleanza e unire energie e risorse con paesi come la Francia, la Germania e la Spagna. Se si vuole dare una risposta efficace e concreta bisogna creare una piattaforma europea della cultura. Si dovrebbe fare un consorzio europeo con le risorse di Recovery Fund stanziate nei vari paesi in modo da poter preservare e difendere le infrastrutture della cultura”.

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