di Gigi Spina*
*Filologo, grecista e saggista italiano. Ha insegnato queste discipline come professore ordinario all’ Università Federico II di Napoli e in altri atenei.
Io me lo ricordo il tennis prima di Sinner. E prima ancora. Arrivo a Nicola Pietrangeli e Orlando Sirola, e Lea Pericoli. Ricordo Beppe Merlo e il suo colpo bimane che spazzolava la pallina. E poi Fausto Gardini, esile ma indomabile. E una drammatica finale fra i due. E poi, naturalmente, Panatta, Adriano e la sua Veronica. E Barazzutti, che vedeva in ogni avversario un Mandrake. E le telecronache di Giorgio Bellani e poi di Guido Oddo, prima dei dialoghi di Gianni Clerici e Rino Tommasi. E poi tutti quegli stranieri che giocavano divinamente, alcuni anche un po’ pallettari, tranne John McEnroe e Pete Sampras e pochi altri, fino a quando arrivarono Roger Federer e Rafa Nadal e tutto cambiò. Non chiedetemi di Nole, Djokovic per gli amici. So che è un grande campione, ma non ci siamo mai presi. Ricordo anche il tennis femminile, da Billie Jean King a Martina Navratilova (che amavo segretamente) e Chris Evert. Mica mi metto a fare tutti i nomi. Chi ha la mia età li e le ricorda senz’altro.
Tutto questo pistolotto per dire che ho visto trasformarsi miracolosamente il legno della Maxima Torneo e della Dunlop nel metallo prima e poi nella graphite, che ha reso la racchetta una piuma. So che c’è un Museo della racchetta (non il più grande) anche in Italia, a Baldissero d’Alba, 40 chilometri da Torino. Il proprietario è Paolo Bertolino (che non è il fratello minore di Paolone Bertolucci). Le racchette collezionate sono a oggi 1400.
Il ‘mio’ tennis non è solo un ricordo. A tennis, intanto, ho giocato per poco più di 60 anni, dai campi accanto alla piscina sul lungomare di Salerno fino al Tennis Siro di Bologna, passando per il Park Tennis di Napoli, per Bressanone, Caserta e Palermo. Preciso subito: non per tornei o Coppe Facchinetti. Quelli ho capito subito che non avevo la testa per farli. Giocavo bene, uno stile non male, un rovescio naturale, ma la testa niente. Quindi solo sfide con amici fino ai doppi maschili e misti di Bologna.
Poi, dopo l’estate del 2024 ho smesso, e non perché ci fosse Sinner … ma forse anche perché c’era lui. Nel senso che c’è stato un periodo in cui mi sembrava che da giocatore di club sapevo sbagliare da professionista: lo stesso modo di buttare la pallina un po’ fuori dal rettangolo di gioco o in rete. E continuavo a giocare immaginando colpi temerari e traiettorie impossibili.
Poi, ad un certo punto, mi è sembrato una sorta di lavoro. E io che sono in pensione voglio godermi la dilatazione dei tempi, la scelta di gestirmeli senza scadenze fisse. Quelle mattine di martedì e venerdì impegnate, che comunicavo a tutti con una punta di compiaciuto narcisismo, e che comportavano spostamenti di riunioni e di call per favorirmi, mi sono sembrate, dopo l’estate del ’24, un lavoro troppo gravoso. Neanche il Covid era riuscito a fermarmi, mi allenavo nel cortile di casa, contro il muro.
Mi ha fermato Jannik Sinner: sì, ora che ci penso ne sono convinto, perché volevo tutto il tempo per seguirlo e conoscerlo. E godere del fatto che c’era finalmente, nel tennis, un italiano stabile.
Qui devo aprire il capitolo (o paragrafo) ‘tifo’, termine che può anche starci nel tennis ma assume un sapore del tutto diverso da quello che imperversa per altri sport. Esultare per il tennista per cui si tiene o per la squadra della nazionale ha nel tennis delle regole di bon ton che difficilmente possono essere violate. Durante il gioco c’è silenzio, il giudice di sedia riesce sempre a imporlo. Il tifo, quindi, si misura sulla singolare unicità dello ‘sport del diavolo’. Che ci sia un incontro fra due o fra due coppie, è difficile che la fortuna possa giocare un ruolo importante e decisivo. Sì, c’è il nastro della rete, ma spesso può giocare anche a sfavore; c’è l’astuta battuta dal basso, ma dopo un paio l’avversario finisce per capirla e controllarla. E quindi lo stesso tifo deve misurarsi con i veri valori in campo. Che però non sono dati dalle classifiche. Ogni partita è una storia a sé, il cui esito dipende da fattori diversi: braccio, gambe, mente. Per questo il tifo nel tennis è diverso. Il tifo, in qualche modo, tende a sollecitare un incontro di livello, bello da vedere, indecifrabile quasi fino alla fine. E poi vinca, anzi: vincerà il migliore in quella partita.
Ecco perché Jannik Sinner ha cambiato i termini della questione per i ‘tifosi’ o comunque per i tennisofili italiani. Fino a lui il giocatore italiano, per quanto bravo, elegante, collezionista di coppe, aveva sempre qualcosa di discontinuo. Non faccio nomi, ma ricordo le speranze riposte in tanti (nel tennis femminile, con poche eccezioni, si respira ancora quell’aria), ma poi lasciate con amarezza dopo inspiegabili sconfitte. La scena mondiale non parlava italiano, se non in limitati sprazzi.
Ora provate a riandare con la mente all’ingresso di Sinner sulla scena tennistica: ne vedrete la continua progressione, le tappe esplicitate anche per il pubblico dalla consapevolezza delle difficoltà del percorso stesso, le inevitabili pause, alcune determinate da una malaugurata penalizzazione, le poche sconfitte dovute a evidenti momenti di non controllo dei tre fattori che ho individuato prima.
E se non siete ancora convinti, leggete la prefazione che Sinner ha scritto per un libro fondamentale per chi voglia capire che cos’è oggi il tennis professionista: Nella mente del campione, di Riccardo Ceccarelli, con sottotitolo Le quattro fasi della scalata verso la self-confidence e il successo (Giunti, Firenze 2024). Leggerete di un costante sacrificio, affrontato con serenità consapevole in base a una domanda fondamentale: “dove posso migliorare ancora?”, che Sinner continua a porsi come molla per il futuro. Orgoglio, umiltà e tanta forza sono le doti richieste a Sinner per difendere (e riconquistare) il titolo di n. 1 del tennis mondiale.
Quella stabilità per la prima volta ha dato, almeno a me in quanto italiano – non voglio parlare a nome di nessuno -, la possibilità di riporre in un tennista una fiducia quasi mai disattesa, di vedere incontri quasi sempre entusiasmanti, di seguire con ansia i momenti di black out ma sapendo che la capacità di resilienza è forte e consapevole (ho usato spesso questo aggettivo, che mi pare particolarmente adatto a Sinner).
Ecco, tutto questo non mi fa più divertire nel giocare in prima persona a tennis, ma mi dà invece la grande gioia di vedere e capire ogni singolo gesto dei tennisti, a partire da Sinner, di prevedere le risposte e di stupirmi per i colpi inattesi. E di seguire anche quei rassicuranti e innegabili tratti di umanità (negli affetti familiari, nella riconoscenza per il suo team, Cahill e Vagnozzi in primis) che Sinner ha saputo rendere evidenti anche nelle numerose presenze pubblicitarie, sempre marcate da ironia e schiettezza.
Per questo, pur essendo un discreto frequentatore di social, non partecipo quasi mai ai ‘dibattiti’ su Sinner, non rispondo mai agli immancabili e rancorosi attacchi a una trasparente carriera. Sinner si difende con la sua personalità e con il suo gioco, fin quando ne avrà voglia e si divertirà.
So solo che da quando è entrato nel mondo del tennis qualcosa è davvero cambiato, in Italia e nel mondo. Nella scia delle storie migliori di questo meraviglioso sport. In fondo, basta seguire l’accorato invito che l’appena diciottenne Tracy (Mariel Hemingway) rivolge allo sfiduciato Isaac (Woody Allen) nel finale di Manhattan (1979): “You have to have a little faith in people”, “Bisogna avere un po’ di fiducia nella gente”.