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L'America del mito e quella di Trump

Oggi al potere c'è chi usa un linguaggio rozzo e brutale. Ma il Tycoon era già lì, da tanto tempo, non volevamo vederlo. L’America, che tristezza, era già quella. Era già questa. Ci sarà mai qualcuno che la farà risorgere?

L'America del mito e quella di Trump
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Maurizio Bettini Modifica articolo

27 Agosto 2025 - 14.50 Culture


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Da bambino avevo il mito degli americani. Livorno, la mia città, ne era piena. Molti venivano dalla Base di Camp Darby, o abitavano addirittura in città, altri scendevano dalle navi che gettavano l’ancora davanti al porto. Che era distrutto e non si poteva attraccare. Ammiravo le loro divise eleganti, erano alti, guidavano macchine meravigliose, Chevrolet, Cadillac, Studebaker, di cui conoscevo i nomi dagli album delle figurine. Non pensavo che erano stati loro a distruggere la mia città scaricando tonnellate di bombe giù dai loro aeroplani, del resto nessuno mi ci faceva pensare, loro erano i liberatori, e questo accresceva il loro mito.

Ormai i cattivi erano solo i tedeschi. Alle prime festicciole da adolescenti, tredici, quattordici anni, ballavo sulle note delle canzoni di Elvys o dei Platters, il mito continuava, l’America entrava nell’anima con i primi amori. Il caso scoppiò solo dopo, quando iniziò la guerra del Vietnam, ora non potevano esserci dubbi, i cattivi erano loro. Ma in patria, nei campus e nelle piazze, a New York e a San Francisco, c’erano i ragazzi con i capelli lunghi, la chitarra, volevano fermare la guerra, ci si poteva specchiare in loro. Il mito in qualche modo resisteva, tutto sommato gli americani potevano continuare ad essere i buoni, a ispirarci, c’era il napalm ma anche Bob Dylan e Joan Baez, che aveva una voce da usignolo, mai sentita prima.

Il tempo passava, la musica e le canzoni continuavano, per fortuna. Adesso gli americani, per la verità, erano sempre meno buoni, ma all’età che avevo raggiunto mi nutrivo quasi esclusivamente di scrittura, di letteratura, e per questo c’erano Saul Bellow o Philip Roth. Poi altre guerre, sempre più ingiustificabili, come in Iraq, solo che adesso potevo andare in California, nelle loro belle Università, scoprire i movimenti antirazzisti, il politically correct, i gender studies, avevo la possibilità di incontrare professori e studenti democratici, che chiamavano le cose con il loro nome, dottorandi che al primo anno si iscrivevano come uomini ma l’anno dopo erano “in transition”, fino a diventare modelle di moda trans. E lì, in California, che bellezza, tutto questo era considerato normale.

Oggi al potere c’è Trump, che non rispetta il diritto internazionale, e nemmeno quello del suo paese, vuol risolvere ogni problema con la forza, detesta l’Europa, toglie i soldi alle Università, deporta gli immigrati facendoli trascinare in catene, usa solo un linguaggio rozzo e brutale. E ci sono milioni di americani che lo seguono e la pensano come lui. Che cosa sono diventati? Dove sono finiti quelli di prima?

Improvvisamente penso alle migliaia di serie tv, ai milioni di film di serie B o anche meno, in cui da vent’anni (o sono già trenta?) si vedono sempre le stesse scene: il poliziotto che getta via il distintivo per punire il colpevole senza rispettare le regole, l’ex militare che torna da una delle tante guerre e si fa giustizia da solo, il momento in cui si apre la valigia, il cofano dell’auto, la cassetta segreta … Ed ecco che uomini palestrati e molto maschi ne estraggono grosse pistole di acciaio, fucili a pompa, mitragliatori da guerra. L’epifania, armi luminose e splendenti come il Graal. Trump era già lì, da tanto tempo, non volevamo vederlo. L’America, che tristezza, era già quella. Era già questa. Ci sarà mai qualcuno che la farà risorgere?

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