Non solo sport ai Campi Elisi: si chiude il Tour di Pogačar tra trionfo sportivo e softpower

Tadej Pogačar, il dominatore assoluto di questa epoca del ciclismo, oggi entra definitivamente nella leggenda con la sua quarta vittoria. Anche nel ciclismo, come nel calcio, è una questione globale, di visibilità.

Non solo sport ai Campi Elisi: si chiude il Tour di Pogačar tra trionfo sportivo e softpower
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Marcello Cecconi Modifica articolo

27 Luglio 2025 - 12.41 Culture


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È domenica. 27 luglio 2025. Siamo a Parigi, la Ville Lumière, la città dei grandi boulevards. Luogo di barricate rivoluzionarie e di storici accordi diplomatici. Oggi è il palcoscenico dell’ultima tappa del Tour de France, la più scenografica e più celebrativa, quella dei Campi Elisi. 132,3 chilometri da Mantes-la-Ville fino al cuore della capitale.

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Ma quest’anno, l’arrivo non è solo sportivo: è anche simbolico. La sfilata dei ciclisti sotto l’Arco di Trionfo è anche una pedalata dentro un tempo politico denso. Parigi è stata, solo pochi giorni fa, teatro di uno degli annunci più simbolici e provocatori della presidenza Macron: il riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina da parte della Francia. Un atto che sta spaccando la scena diplomatica europea.

E in mezzo a questo scenario c’è lei, la bici. Strumento di fatica, bellezza e resistenza che fa della corsa un rito civile e uno spettacolo planetario. E come epopea personale c’è quella di Tadej Pogačar, il dominatore assoluto di questa epoca del ciclismo, che oggi entra definitivamente nella leggenda con la sua quarta vittoria al Tour de France. Una cavalcata monumentale che pare quasi inevitabile.

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Sloveno, classe 1998, Pogačar è il volto sorridente di un ciclismo che con lui torna a essere poesia e ferocia insieme. Lieve in salita, scaltro in pianura, spietato nelle crono. Piccoli Paesi, grandi destini. Infatti è figlio sportivo di una Slovenia che dopo la disgregazione jugoslava ha costruito atleti come si costruiscono simboli. Cresciuto nella valle dell’Alta Carniola, è passato in pochi anni dal dilettantismo al mito. A soli 21 anni ha vinto il suo primo Tour (2020), strappandolo nell’ultima cronometro all’allora più noto connazionale Primož Roglič. Da allora non si è più fermato.

Pogačar incarna la nuova era del ciclismo europeo post-pandemico: è innovatore e classico, sorridente e feroce. Non corre solo per vincere, corre per dominare. Ed è questo che lo rende diverso: non è uno specialista, è un corridore totale. Ha lo spirito di Merckx e la leggerezza eroica di Pantani, ma con la lucidità di un’astronauta.

È il leader della UAE Team Emirates e non è dettaglio da poco, se si guarda alla mappa degli sponsor e delle alleanze nello sport globale. E allora quali sono le bandiere che sventolano sul podio?  Quelle delle nazioni, certo, ma anche quelle delle potenze che finanziano e influenzano. Anche nel ciclismo, come nel calcio, è una questione globale, di visibilità, di soft power. E allora lo sport diventa, anche al Tour, un luogo di frizione. Pedalare sugli Champs-Élysées significa attraversare la città delle Olimpiadi dell’estate scorsa, ma anche quella dei cortei di protesta, quella dei dibattiti sull’identità europea e della Palestina riconosciuta in un’Europa ancora divisa.

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E mentre i corridori si godono il sole parigino, Pogačar, con la sua maglia gialla impeccabile, non sembra sentire il peso della geopolitica. Sorride, beve champagne con i compagni, saluta il pubblico. È pienamente consapevole di essere in scena: quando nel pomeriggio alzerà le braccia al cielo sa che quello non è solo un traguardo, ma anche un messaggio.

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