Antropocene pedologico: l'uomo è scultore inconsapevole del territorio. E non è un bene | Giornale dello Spettacolo
Top

Antropocene pedologico: l'uomo è scultore inconsapevole del territorio. E non è un bene

L'influenza umana sul suolo alpino negli ultimi 3800 anni ha prodotto cambiamenti molto più ingenti di quelli naturali. Uno studio svela come le attività antropiche, dalla pastorizia all'urbanizzazione, abbiano accelerato l'erosione, creando un "Antropocene del suolo" che minaccia l'equilibrio ecosistemico e la stabilità idrogeologica.

Antropocene pedologico: l'uomo è scultore inconsapevole del territorio. E non è un bene
Preroll

redazione Modifica articolo

26 Luglio 2025 - 16.10 Culture


ATF

di Lorenzo Lazzeri

L’attuale era geologica, l’Antropocene, vede l’azione umana essere una forza dominante, con una profonda alterazione del rapporto tra uomo e ambiente. L’erosione del suolo, processo naturale ma oggi accelerato dall’intervento antropico, è divenuta una questione centrale per la sostenibilità. In particolare il contesto alpino rappresenta un laboratorio naturale dove le tracce di questo impatto sono evidenti e misurabili.

Il concetto di Antropocene, coniato nel 2000 da Paul Crutzen, è caratterizzato dal riconoscimento di una discontinuità geologica: da semplice attore biologico l’uomo si è trasformato in agente geomorfologico, capace di rimodellare il sistema terrestre. Non si tratta di un cambiamento irrilevante, ma di una vera e propria metamorfosi che impone una responsabilità ecologica su scala planetaria.

L’antropizzazione del territorio – ovvero il complesso degli interventi umani sull’ambiente – si è manifestata con accelerazioni storiche: dalla domesticazione del fuoco, alle pratiche agricole, all’industrializzazione. A oggi le modificazioni della superfice terrestre causate dall’uomo eguagliano o superano quelle frutto di processi naturali, e molte trasformazioni non sono più reversibili. L’erosione si compone di due fasi principali: distacco e trasporto, innescate da acqua e vento e influenzate dalla copertura vegetale. Nei climi alpini l’erosione pluviale prevale e si manifesta con ruscellamento, solchi, sedimenti e, nei casi più estremi, affioramento di strati sottostanti.

Il fattore umano ha tuttavia amplificato i processi erosivi oltre ogni precedente naturale. Pratiche come agricoltura intensiva, disboscamento, sovrapascolo e urbanizzazione riducono la copertura vegetale, rendendo il suolo più vulnerabile. L’aratura muove circa 1.500 gigatonnellate di suolo all’anno a livello globale, con tassi di perdita dieci volte superiori alla formazione naturale: uno squilibrio che minaccia la sicurezza alimentare.

Le Alpi rappresentano il caso emblematico di queste dinamiche. Uno studio coordinato da Julien Bouchez del CNRS francese, pubblicato su PNAS, ha ricostruito – grazie all’analisi degli isotopi di litio nei sedimenti lacustri – una cronologia delle attività umane nelle Alpi francesi negli ultimi diecimila anni. I primi cambiamenti importanti si osservano circa 3.800 anni fa, nell’Età del Ferro, quando le comunità locali cominciano a portare le mandrie in quota e disboscare per facilitare il pascolo. Questa prima fase segna la rottura dell’equilibrio naturale tra formazione ed erosione del suolo.

Circa mille anni dopo si registra una seconda accelerazione a media e bassa quota con lo sviluppo dell’agricoltura e l’introduzione dell’aratro, che intensifica ulteriormente il fenomeno erosivo. Una terza fase, dal tardo periodo romano all’epoca contemporanea, vede la continua evoluzione delle tecniche agricole e una pressione crescente sui versanti montani. Lo studio sottolinea che l’avvio delle attività agro-pastorali ha portato a tassi di erosione da 4 a 10 volte più rapidi rispetto alla produzione di terreno dalla fine dell’era glaciale, tanto da giustificare il termine di “Antropocene pedologico” per le Alpi.

Il fenomeno non è stato sincrono in tutto il mondo, ma dipende dalla diffusione delle prime comunità agricole e pastorali e dalle pratiche adottate. L’accelerazione dell’erosione nei territori alpini non si limita a compromettere la fertilità dei suoli: mina anche la biodiversità, i cicli dell’acqua e del carbonio e la stabilità stessa dei versanti.

I cambiamenti climatici globali agiscono come catalizzatori, accentuando la vulnerabilità degli ambienti alpini. L’aumento delle temperature, che nelle Alpi supera il trend globale, ha portato alla riduzione del 50% della massa glaciale negli ultimi cento anni e allo scioglimento del permafrost, con la conseguente instabilità dei versanti e il moltiplicarsi di frane, colate e crolli rocciosi. Gli eventi meteorologici estremi, come piogge intense e siccità, agiscono su terreni ormai privi di protezione, esacerbando un circolo vizioso di degradazione.

Il degrado del suolo e l’erosione non sono più soltanto questioni ecologiche, ma crisi che hanno gravi ricadute sulla produttività economica, la stabilità sociale e la salute umana. La perdita di suolo coltivabile e di sostanze organiche accelera la desertificazione, mentre la diminuzione della capacità di assorbire carbonio rende i suoli potenziali fonti di gas serra. Questi dati sottolineano l’urgenza di strategie innovative per la tutela degli ambienti naturali, la cui resilienza è oggi messa seriamente alla prova dalle nostre scelte.

Native

Articoli correlati