di Margherita Degani
Questa settimana, per la precisione il 16 giugno del 1942, una ragazzina di tredici anni iniziava a scrivere il diario più letto della storia della Letteratura. Anna Frank aveva infatti ricevuto in regalo per il suo compleanno un quaderno dalla copertina rossa e, solo pochi giorni dopo, aveva cominciato a riempirne le pagine di riflessioni. Lo faceva da una stanza segreta collocata dietro ad una libreria di Amsterdam, nascosta assieme alla sua famiglia per sfuggire alla furia nazista. La scrittura di Anna, così intima, lucida e sconcertante nella sua semplicità, non era pensata per diventare pubblica. Eppure era anche un atto di resistenza, in un mondo dalle libertà soffocate. Scriveva per restare viva e per dare un senso al tempo fermo della paura. E’ proprio in questo modo che, inconsapevolmente, più tardi è diventata testimone in nome di tutti quelli a cui era stata tolta la voce.
Oggi, oltre ottant’anni dopo, la vicenda di Anna Frank continua a parlarci. Non solo per la brutalità del contesto storico – una pagina che riguarda ancora tutti noi- ma per ciò che la sua esperienza ci dice sul rapporto tra scrittura e verità. Perché se è vero che viviamo in un’epoca che si dice più libera, è altrettanto vero che molti scrittori, giornalisti e intellettuali nel mondo continuano a pagare un prezzo altissimo per ciò che raccontano. Non è raro che la penna diventi un bersaglio. In Iran, in Russia, in Turchia, in Cina, in Eritrea — per citare solo alcuni esempi — chi scrive con onestà, chi indaga, denuncia e spiega la realtà, spesso finisce per dover scegliere tra l’esilio, la prigione o la morte. Pensiamo ad Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca nel 2006 per le sue inchieste sulla guerra in Cecenia; a Salman Rushdie, accoltellato nel 2022 dopo decenni di minacce; a Liu Xiaobo, Premio Nobel per la Pace, intellettuale e dissidente cinese, arrestato per aver scritto un manifesto a favore della democrazia; a Zehra Doğan, artista e giornalista curda, incarcerata in Turchia per aver raccontato la distruzione del suo popolo con un disegno; ai numerosi reporter uccisi ogni anno in Messico o nelle Filippine e a chi è costretto a lasciare tutto per salvare la propria vita. Sono i rifugiati della parola, gli esuli del pensiero.
Quello che unisce tutti loro, compresi i numerosi esempi che non abbiamo citato? Una verità scomoda e la scrittura onesta, considerata tuttora qualcosa di pericoloso poiché rende visibile ciò che il potere vuole nascondere. Ma non confondiamoci. Non è la scrittura ad uccidere, quanto invece la paura del potere di perdere il controllo sul racconto della realtà. Anche – se non direttamente soprattutto- in questo tempo di disinformazione e rumore digitale, il ruolo di chi scrive con onestà è più cruciale che mai. Ogni sua parola è un gesto politico e un atto di responsabilità che spetta anche ai lettori: leggere, dare spazio anche alle notizie ed alle verità scomode, perfino quelle più disturbanti, è l’unico modo per contribuire a proteggere chi ha il coraggio di raccontare. Non possiamo limitarci a condividere frasi celebri, per poi voltare troppo velocemente lo sguardo davanti all’oppressione che troppo spesso colpisce gli scrittori di oggi, come quelli di ieri.
Se Anna Frank vivesse oggi, forse avrebbe un blog segreto, forse affiderebbe i suoi pensieri a una chat criptata, forse sarebbe una giornalista in fuga. Potrebbe essere censurata, hackerata, minacciata. Non dovrebbe stupirci. Ma possiamo starne certi, continuerebbe in ogni caso a parlare attraverso la sua penna, a raccontarci; perché per lei, così come per molti altri, scrivere non è solo questione di scelta, ma una lotta legata alla libertà di esistere e pensare. Allora fermiamoci un attimo, rallentiamo qualche minuto per chiederci quanto valore diamo noi alla parola scritta e quanto siamo disposti a proteggerla. Comprendiamo davvero che, spesso, dietro ad ogni parola libera c’è un prezzo pagato -per tutti- da chi ha avuto il coraggio di scriverla.