Federico Fellini è il cinema italiano che ha conquistato Hollywood | Giornale dello Spettacolo
Top

Federico Fellini è il cinema italiano che ha conquistato Hollywood

Un viaggio nell’universo cinematografico del regista, tra memoria, sogno e visione. Dalla realtà neorealista alla fantasia grottesca, ha trasformato il cinema italiano in linguaggio unico e indistinguibile.

Federico Fellini è il cinema italiano che ha conquistato Hollywood
Preroll

redazione Modifica articolo

10 Aprile 2025 - 15.42 Culture


ATF

di Raffaella Gallucci

Il 7 aprile 1975 Amarcord riceveva l’Oscar come miglior film straniero. Era il quarto per Federico Fellini, che vent’anni prima, l’8 aprile 1957, aveva già ricevuto la stessa statuetta per La strada. Due premi, a distanza di due decenni esatti, che sembrano chiudere un cerchio, racchiudere l’arco di un viaggio artistico che ha trasformato per sempre l’idea di cinema e l’idea d’Italia.

Questi anniversari non rappresentano solo delle semplici date su un calendario, ma porte socchiuse su un immaginario – quello felliniano – che da La strada ad Amarcord ha raccontato l’anima di un paese e i suoi sogni più profondi. Quando il regista romagnolo esordisce, il neorealismo è ancora il linguaggio dominante del cinema italiano: da Roberto Rossellini con Paisà oppure Giuseppe De Santis con Caccia Tragica e la sua trilogia della terra e Vittorio De Sica con l’indimenticabile Ladri di biciclette. Contaminazioni che non potevano non influenzare i primi passi del giovane sceneggiatore. Ma già nei primi suoi film, da Luci del varietà a I vitelloni, si avverte un ulteriore desiderio, quello di discorsasi, con rispetto, dalla messa in scena di un Italia “decadente” adottando, invece, uno sguardo nostalgico che non è solo sociale, ma esistenziale, e un’attenzione per il dettaglio umano che supera il racconto realistico.

La strada è il primo passo verso una nuova “sensibilità” di pensiero. La storia della fragile Gelsomina e del bruto Zampanò è una favola crudele e poetica, dove la miseria e spiritualità coesistono con toni agrodolci. È un film che parla con la lingua dei simboli, delle lacrime e degli sguardi. Con esso Fellini conquista l’Oscar e il mondo, e già afferma la sua poetica: raccontare il reale per toccare l’invisibile. Negli anni Sessanta questa poetica si amplia, si contamina, esplode. La dolce vita non è solo un capolavoro visivo, ma uno spartiacque culturale. Fellini fotografa una Roma mondana e inquieta, specchio del vuoto e lo fa con una libertà, dove i personaggi diventano maschere di un ininterrotto carnevale. Poi arriva 8½, il film in cui il regista si guarda dentro e fa del proprio caos creativo un’opera. È un autoritratto visionario, un sogno dentro il sogno, in cui ogni scena è riflesso e dubbio.

Qui il cinema non è più solo narrazione, ma è un atto soggettivo e liberatorio. Eppure, dopo aver conquistato il pubblico nazionale e poi internazionale con il suo mondo onirico e grottesco, Fellini sente il bisogno di tornare nella sua terra: Rimini. Con Amarcord non firma un ritorno nostalgico, ma un’opera viva, dove l’infanzia si mescola alla fantasia. La scuola, la piazza, il prete, le donne gigantesche, la nebbia, il mare: ogni elemento è deformato, esagerato, trasformato da una visione contaminato dal tempo e dai sogni. L’Italia fascista non è ritratta con verità storica, ma con un’ironia che diventa critica e compassione insieme. Amarcord è il film della memoria, ma anche quello dell’identità: di un paese che si specchia nei suoi riti, nelle sue paure e nei suoi desideri.

Con questo film Fellini ottiene il suo quarto Oscar, ma soprattutto conferma che il suo cinema pur parlando di sé, può appartenere a tutti. I suoi personaggi, spesso ridicoli o grotteschi, non sono mai giudicati, ma accolti e accettati nella loro totale follia. È questa la forza del suo sguardo: comprendere i personaggi anche quando sono incoerenti, meschini e infantile.  Fellini non cerca la verità nei fatti, ma nei sentimenti. Per lui il cinema non è specchio del reale, ma riflesso dell’interiorità; una macchina per evocare, deformare a suo piacimento la vita. Non a caso diceva: “Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare.” È tutto sintetizzato in quella dichiarazione semplice e definitiva: l’arte non spiega, evoca e incanta. 

Nei successivi lavori come – Giulietta degli spiriti, Roma, Il Casanova, Prova d’orchestra, E la nave va, fino a La voce della luna – questa poetica si rafforza, si complica, talvolta si chiude su sé stessa, ma non perde mai il coraggio dell’invenzione. Ha vinto premi, ha suscitato polemiche, ha lasciato tracce ovunque: nel linguaggio del cinema, nella pubblicità, nei fumetti, nei sogni di generazioni. Ad oggi, a cinquant’anni dall’Oscar ad Amarcord, quelle parole suonano come il suo testamento. Fellini non ha raccontato la realtà, ha raccontato come ci si sente a viverla soggettivamente. Ha fatto del cinema una forma di confessione e di magia.

Native

Articoli correlati