La sospensione di "Avetrana – Qui non è Hollywood": censura preventiva o legittima tutela dell'immagine pubblica?

Il blocco della serie della Disney ripropone quesiti profondi su libertà di espressione in Italia, invocando un inedito dibattito giuridico che lambisce i confini della emancipazione artistica e derive liberticide.

Simbolicamente, giustizia condanna la libertà d'espressione
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25 Ottobre 2024 - 19.16 Culture


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di Lorenzo Lazzeri

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In una sentenza inaspettata e dal sapore potenzialmente storico, il Tribunale di Taranto ha ordinato la sospensione cautelare della serie televisiva “Avetrana – Qui non è Hollywood”, prodotta da Groenlandia e Disney, accogliendo il ricorso urgente del Comune di Avetrana. La decisione si fonda sulla presunta lesività del titolo della serie, il quale potrebbe — nelle parole del Comune — instillare nello spettatore l’idea di una comunità associata a un pregiudizio implicito di “criminalità” e arretratezza. Tale pronuncia ha immediatamente suscitato l’interesse e lo sgomento delle principali associazioni di produttori e autori italiani, incluse ANICA, WGI e APA, che hanno percepito l’atto come una lesione della libertà d’espressione e, non da meno, come un pericoloso precedente verso un nuovo terreno giurisprudenziale, mai esplorato prima d’ora in Italia.

Secondo il giudice della sezione civile Antonio Attanasio, la sospensione si giustifica alla luce della possibilità concreta che il titolo possa generare un danno immateriale all’immagine del Comune di Avetrana, gravando sulle spalle dei cittadini una percezione negativa, lesiva del sentimento di appartenenza e della dignità collettiva. Nondimeno, la scelta di un blocco preventivo, avvenuto in assenza di contraddittorio, ha suscitato un forte allarme, in quanto la giurisprudenza italiana si è mostrata tradizionalmente cauta nell’applicare la censura pregiudiziale a opere artistiche, specialmente in casi in cui la lesività risiederebbe in un titolo, più che nel contenuto stesso, ancor oggi sconosciuto al grande pubblico.

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È essenziale, infatti, ricordare che il diritto alla tutela dell’immagine collettiva è pur sempre soggetto al limite superiore della libertà di espressione, come sancito dall’articolo 21 della Costituzione, cardine di qualsiasi forma di manifestazione artistica e culturale. In passato, la giurisprudenza si è orientata verso il principio di “tolleranza critica”, riconoscendo alle opere audiovisive una libertà narrativa che può, nel rispetto dei confini del rispetto personale e morale, includere fatti di cronaca e riferimenti a eventi drammatici, purché venga preservato un rigore intellettuale e verosimile nell’esposizione dei fatti. Non è un caso che celebri titoli come Romanzo Criminale, Milano calibro 9 o la controversa serie, La saponificatrice di Correggio, non siano mai stati oggetto di contenziosi giuridici, poiché le opere rappresentano non l’essenza morale di una comunità, ma la complessità di vicende umane e sociali radicate in un contesto storico particolare.

Chiara Sbarigia, presidente dell’APA, ha manifestato preoccupazione per questa pronuncia giudiziaria, dichiarando che il blocco preventivo “pare configurarsi come una limitazione indebita di una libertà artistica, configurando un passo verso forme di censura che potrebbero gravemente inficiare la capacità del nostro Paese di rappresentare sé stesso attraverso la produzione audiovisiva“.

Parimenti, Benedetto Habib, presidente dell’Unione Produttori di Anica, ha espresso la propria contrarietà alla sentenza, mettendo in guardia contro il rischio di vedere l’Italia imboccare una strada che limita l’autonomia creativa con provvedimenti che nulla hanno da invidiare a sistemi di censura propri di regimi illiberali. Le associazioni professionali hanno inoltre richiamato l’importanza di una rappresentazione non edulcorata della realtà: “Esplorare la complessità della nostra società attraverso la cronaca non è solo un diritto, ma un dovere culturale“, ha aggiunto Habib, suggerendo che bloccare l’uscita di una serie per motivi esclusivamente interpretativi equivale a soffocare il valore critico della narrazione.

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Una riflessione ulteriore è stata offerta dagli autori e sceneggiatori italiani, rappresentati dalle sigle Anac, 100autori e Wgi, i quali hanno espresso una visione ancor più allarmata, invocando uno scenario distopico nel quale i sindaci e le amministrazioni locali potrebbero ostacolare, in futuro, qualsiasi produzione che suggerisca un’ombra morale sulle rispettive città. Gli autori non esitano a definire la situazione come “opprimente“, lamentando un clima di tensione latente e di autocensura, che nei fatti limita la possibilità di narrare la contemporaneità italiana nella sua piena complessità, con i suoi chiaroscuri e i suoi percorsi controversi. Il regista della serie, Pippo Mezzapesa, dal canto suo, ha affermato che il progetto Avetrana – Qui non è Hollywood si fonda su un’esplorazione profonda e rispettosa della vicenda umana, priva di connotazioni denigratorie verso la comunità, il cui scopo principale è quello di ripercorrere la tragica storia di Sarah Scazzi alla ricerca di un significato che risieda al di là della pura cronaca.

La pronuncia del giudice Attanasio, nella sua delicatezza, potrebbe dunque rivelarsi un autentico spartiacque, aprendo alla possibilità di ricorsi da parte di soggetti pubblici verso opere che trattino di episodi di cronaca o di eventi storici, indipendentemente dalla narrativa adottata e dal trattamento riservato alla comunità di riferimento. “La libertà di espressione costituisce la pietra angolare della democrazia,” ha ricordato Sbarigia, rimarcando come una misura restrittiva come quella in oggetto rischi di configurare una giurisprudenza che, anziché ispirarsi ai principi di pluralismo e apertura, si orienti verso una gestione protezionistica della rappresentazione collettiva, esponendo il paese a derive illiberali che intaccherebbero irrimediabilmente l’integrità del discorso culturale nazionale.

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