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La tragica vita di Phil Spector, il genio che produsse i Beatles morto in carcere

Non un semplice produttore o un discografico: era un artista. Ma ha avuto un'esistenza segnata da drammi e dai suoi demoni interiori

La tragica vita di Phil Spector, il genio che produsse i Beatles morto in carcere
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

19 Gennaio 2021 - 11.03


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La storia pullula di artisti che, al di fuori del loro universo creativo, fanno una fatica del diavolo a rapportarsi con gli altri e col mondo – insomma a vivere. In questa schiera di artisti “maledetti” si può certo annoverare Harvey Philip Spector, noto come Phil, uno dei più grandi produttori della musica rock, che si è spento a 81 anni per complicanze legate al Covid. Stava scontando una pena detentiva per l’omicidio dell’attrice Lara Clarkson, avvenuto nel 2003 in circostanze non ben chiarite e per il quale era stato condannato a 19 anni di carcere (clicca qui per la notizia della morte).

Spector non è stato un semplice produttore discografico: era anche un grande artista dal multiforme talento, il pioniere di un discorso creativo che unisce l’aspetto produttivo al ruolo di compositore, esecutore e arrangiatore. Spector aveva maturato un’esperienza in ogni aspetto del mondo musicale: dagli esordi come chitarrista che si esibiva con una propria band, al lavoro di turnista, alla scrittura e all’arrangiamento di brani, alla profonda conoscenza del missaggio e degli studi di registrazione. Non solo scriveva, sceglieva e curava gli arrangiamenti per gli artisti che si affidavano al suo genio, ma li guidava, supervisionando ogni aspetto e fase del processo realizzativo, conferendo ai dischi il suo tocco personale e assicurandone il successo.

Tra le sue più celebri invenzioni, che hanno influenzato generazioni di artisti, c’è il cosiddetto Wall of Sound, una tecnica rivoluzionaria conosciuta anche come Spector Sound, che consisteva nell’unire alla canonica formazione basso-chitarra-batteria gli strumenti tipici di un’orchestra, come archi, ottoni, triangoli, timpani e percussioni, il cui suono, registrato e sovrapposto agli altri, a volte addirittura raddoppiato o triplicato, produceva un effetto ricco e fastoso, contraddistinto da un forte riverbero, tanto da creare una sorta di bolla avvolgente per l’orecchio dell’ascoltatore e adattissima per la riproduzione alla radio e nei jukebox.
Quel vero e proprio muro di note di approccio wagneriano, come amava definirlo il suo ideatore, caratterizzava in maniera inconfondibile i dischi da lui prodotti, tanto che la rivista Rolling Stone lo annoverò al 64° posto nella classifica dei 100 migliori artisti di sempre: un prestigioso riconoscimento per il musicista newyorkese che in decenni di attività portò in vetta alle hit parade brani dal sound travolgente.

Nato nel Bronx da una famiglia ebrea di origine russa, segnata da difficoltà economiche e tragedie, il giovane Phil, trasferitosi adolescente a Los Angeles, si avvicinò al mondo della discografia e dopo una lunga gavetta registrò con il suo gruppo, i Teddy Bears, un singolo che arrivò a vendere oltre un milione di copie e a raggiungere il primo posto della classifica Billboard: To Know Him Is To Love Him. I brani che seguirono non conobbero lo stesso strepitoso successo, ma Spector si stava ormai incamminando lungo un percorso diverso: quello della produzione. 
Mettendo a frutto le tecniche apprese negli studi di registrazione, anche come turnista, elaborò un suo personalissimo registro stilistico, dedicandosi alla promozione di gruppi femminili, come le Crystals e le Ronettes; la sua scuderia era costituita in buona parte da artisti di colore, e uno dei meriti che gli sono riconosciuti è l’aver avvicinato la middle class bianca alla musica nera. Altro colpaccio di Spector fu il sodalizio con il duo dei Righteous Brothers – dei quali produsse (ma compare anche tra gli autori) quella che sarebbe diventata la canzone più riprodotta nel XX secolo negli Stati Uniti, You’ve Lost That Lovin’ Feelin’, che l’astuto Phil riuscì a imporre nelle radio malgrado il brano superasse la durata massima consentita di tre minuti, aggirando quindi un limite ormai anacronistico, nonché la celeberrima Unchained Melody – e con la coppia formata da Ike e Tina Turner. Di quegli anni è anche l’apparizione in un cameo nel mitico film Easy Rider.

Gli anni Settanta lo videro poi in Inghilterra, dove lasciò un segno indelebile grazie alla collaborazione con John Lennon (Imagine deve qualcosa anche a lui) e George Harrison (del quale produsse The Concert for Bangla Desh e il triplo album All Things Must Pass), sodalizio che ebbe inizio quando i Beatles erano ancora in vita. A Spector si deve infatti uno dei loro storici album così come lo conosciamo, Let It Be. Il disco, uscito dopo l’annuncio dello scioglimento della band di Liverpool, venne registrato quasi tutto in presa diretta, quindi nel marzo del 1970 venne affidato a Spector, che ne curò il mix e ne modificò radicalmente il risultato finale, con l’aggiunta di cori e di parti orchestrali: The Long and Winding Road e la stessa Let It Be sono quei gioielli che sono anche grazie al multiforme talento del buon Phil.

Il genio di Spector continuò ad attirare grandi artisti come Leonard Cohen e gruppi emergenti come i Ramones. In realtà, il suo contributo al mondo della musica è stato duplice: in maniera diretta, con il lavoro in studio di registrazione, e con influenze indirette; tra i tanti esempi, si può citare il caso di Bruce Springsteen, che nel suo album seminale Born To Run si ispirò alla tecnica del Wall of Sound.
Nel 1989 entrò a far parte della Rock and Roll Hall of Fame, ma con il progredire degli anni Ottanta – quasi si fosse chiusa simbolicamente un’epoca nel modo di concepire e produrre musica, persino di stare al mondo – in Spector si fecero sempre più manifesti i sintomi di una progressiva dissociazione dalla realtà, con comportamenti bizzarri e pericolosi che lo spinsero a isolarsi in una sorta di esilio volontario nella sfarzosa residenza sulle colline di Los Angeles, il Pyrenees Castle, la stessa in cui fu trovata morta Lara Clarkson, con la bocca smascellata da un colpo di Colt .38.
Nel suo caso la genialità si è accompagnata ad una problematica gestione dell’esistenza, come spesso accade quando il talento deve venire a patti con la realtà. D’altra parte, Spector non aveva avuto una vita facile: con un padre suicida e una sorella soggetta a frequenti ricoveri in ospedali psichiatrici, egli stesso convisse a lungo con la depressione, che combatteva con la passione per il gioco d’azzardo, l’alcol e le pistole. Era anche stato vittima di bullismo, e aveva sviluppato atteggiamenti paranoici e manie di persecuzione che lo inducevano a girare armato. 

Evidentemente i suoi demoni interiori non avevano mai smesso di tormentarlo, e una drammatica e vivida biografia come la sua si prestava perfettamente alla resa cinematografica: nel 2013 il drammaturgo David Mamet scrisse e diresse un biopic, “Phil Spector”, interpretato da Al Pacino.
Ora ci ha raggiunto la notizia della sua morte, e nel ricordare l’incancellabile contributo al mondo della musica del secondo Novecento e il drammatico vissuto di Spector, non possiamo non piangere la scomparsa di un uomo a cui l’arte deve davvero molto.

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