Il Tulipano Nero: quando un'opera minore diventa maggiore

Pubblicato nel 1850, non è di norma indicato tra i romanzi migliori di Dumas, ma la sua freschezza e scorrevolezza non lasciano molti dubbi.

Il Tulipano Nero: quando un'opera minore diventa maggiore
Il tulipano nero
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13 Febbraio 2022 - 11.34


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di Rock Reynolds

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Qualcuno dice che è in tempi di guerra che la creatività partorisce i suoi figli migliori. Magra consolazione, soprattutto oggi che lo spettro del conflitto sul confine tra Ucraina e Russia aleggia su di noi, tra foschi presagi e secche smentite.

Alexandre Dumas, vissuto tra il 1802 e il 1870, una vera e propria guerra forse non la vide mai, ma certo sperimentò la durezza della contrapposizione violenta nel 1830, con la “rivoluzione di luglio”, e ancor più con il colpo di stato a opera di Napoleone III che, nel 1851, insieme a una serie di rovesci finanziari dovuti in larga parte a uno stile di vita sopra le righe, lo costrinse a riparare in Belgio. Non fu l’unico. A condividere l’esperienza dell’esilio con lui ci fu pure Victor Hugo, i cui rapporti con Dumas furono alquanto burrascosi.

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Grande appassionato di storia, Alexandre Dumas “padre” – da non confondere con Alexandre Dumas “figlio”, a sua volta autore del celebre La signora delle camelie – proprio alle guerre e alla storia bellica fece in larga parte riferimento per costruirsi un enorme successo. Non è un caso che la sua opera più conosciuta, I tre moschettieri – o meglio, la “trilogia dei Tre Moschettieri”, insieme ai successivi Vent’anni dopo e Il Visconte di Bragelonne – sia una vicenda nella quale la guerra (o la minaccia della stessa) con il nemico storico inglese incombe su ogni pagina. Dunque, Alexandre Dumas fu essenzialmente un autore di romanzi storici nonché uno dei maggiori esponenti del cosiddetto feuilleton, il nostro romanzo d’appendice (ovvero lunghissime storie pubblicate a puntate sui giornali del tempo), insieme ai colleghi-rivali coevi Victor Hugo e Eugène Sue (quest’ultimo, noto soprattutto per I misteri di Parigi e L’ebreo errante).

Il tulipano nero (BUR, traduzione di Sara Arena, pagg 410, euro 11) in questa nuova versione vanta una prefazione di Luca Crovi e un’introduzione di Guido Paduano. Pubblicato nel 1850, non è di norma indicato tra i romanzi migliori di Dumas, ma la sua freschezza e scorrevolezza non lasciano molti dubbi.

Siamo nei Paesi Bassi, all’Aia per la precisione, e corre l’anno 1672. Il secolo d’oro di quel paese non si è ancora concluso e solo i venti di guerra su cui si sospetta che soffi la non lontana Francia di Luigi XIV proiettano un velo fosco su una nazione che sta vivendo un’epoca di prosperità quasi irripetibile. Nel 1666 il paese ha sostanzialmente rifiutato a Guglielmo III, principe d’Orange e statolder delle province unite di Paesi Bassi, nonché re d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, il comando supremo delle forze armate e l’anno seguente ha cancellato il titolo di statolder stesso. Ma, in un clima avvelenato dai sospetti di intese segrete proprio con il nemico, il giovane Guglielmo catalizza intorno a sé l’odio per i francesi, trasformandolo in una sorta di crociata a difesa dei valori protestanti contro le pretese totalitarie della chiesa cattolica. Per imporsi su un paese che, come gli Stati Generali delle Sette Province d’Olanda, è alquanto refrattario alla presenza di un sovrano, Guglielmo d’Orange riesce a fare dei fratelli Johan de Witt (pensionario del consiglio d’Olanda) e Cornelis de Witt i capri espiatori che il popolo vuole. Nominato statolder nel 1672, Guglielmo III fa arrestare i due fratelli, non muovendo un dito per impedire che la folla inferocita si abbandoni al loro linciaggio.

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Questa è storia, ma è pure l’inizio de Il tulipano nero. Come scrive Luca Crovi nella sua prefazione, “c’è stato un momento nella storia in cui per i fiori si potevano scatenare guerre, ribellioni e vendette”. Proprio i tulipani, fiori importati nei Paesi Bassi dal lontano Oriente, ebbero un fortissimo impatto sui gusti estetici locali, creando una moda che sfiorò l’ossessione, facendone lievitare i prezzi.

Ecco che intorno alla misteriosa nascita di un tulipano nero si dipana la vicenda raccontata da Dumas. A farla da padrone, ancora una volta, sono l’invidia e l’avidità: basti ricordare come Edmond Dantès, protagonista del capolavoro di Dumas, Il conte di Montecristo, è finito nella prigione del Castello d’If, di fronte a Marsiglia.

Cornelio Van Baerle, figlioccio di Cornelis de Witt, è un appassionato floricultore e riesce a ottenere un bulbo da cui nascerà il miracoloso tulipano nero. Colpito profondamente dalla morte violenta del suo padrino, Cornelio Van Baerle dovrà vedersela con le ambizioni sfrenate del suo vicino di casa, pronto a tutto pur di intestarsi l’impresa della creazione del tulipano nero e di intascare il relativo premio erogato dalla società di orticoltura di Haarlem, capitale olandese dei fiori.

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Come dicevo, l’inizio del romanzo, con il tentativo di fuga dei fratelli de Witt e il loro linciaggio sulla pubblica piazza, è da manuale. Alexandre Dumas, senza indulgere nelle descrizioni più raccapriccianti, mostra le sue capacità narrative, conquistando il lettore fin dalle prime pagine. Ma non è certo il caso di togliere al lettore stesso il gusto della scoperta e, dunque, non aggiungerò dettagli a quanto già detto. Il tulipano nero non sarà, forse, all’altezza delle opere “maggiori” di Dumas, non sfoggiando l’umorismo che contraddistingue I tre moschettieri e nemmeno la cupa disperazione de Il conte di Montecristo, ma resta comunque un grande romanzo. E Alexandre Dumas, malgrado non tutti gli storici della letteratura siano concordi nel giudizio, – la freddezza e lo spazio limitato a lui riservatigli nel Dizionario Bompiani degli Autori, per esempio, lo attestano – resta un caposaldo tanto quanto altri maestri della narrazione come Charles Dickens, Robert Louis Stevenson e Mark Twain, le cui vite sono cronologicamente in parte intrecciate alla sua. E, come nel caso de Il conte di Montecristo, Alexandre Dumas si è avvalso della collaborazione di Auguste Maquet per la ricostruzione storica: una garanzia. Eppure tra i due sono sorti dissidi sfociati in controversie legale. Alcuni critici nel corso degli anni hanno avallato l’idea che il ruolo svolto da Maquet sia stato ben superiore a quanto accreditatogli da Dumas. Qualcuno si è spinto addirittura al punto di sostenere che si debba a Maquet ciò che Dumas non era in grado di scrivere.

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