di Giuseppe Costigliola
È in pieno svolgimento fino al 1° marz l’edizione 2020 del Festival di Berlino che, bisogna dire, non è nata sotto una buona stella. Dapprima è scoppiato lo scandalo legato al fondatore del festival, Alfred Bauer, al cui nome è legato da decenni un premio: improvvisamente la stampa tedesca ha rivelato, ma guarda un po’, che Bauer era in odore di nazismo. A ciò si è aggiunta l’inquietudine procurata dal Coronavirus, dopo che gli organizzatori avevano tirato un sospiro di sollievo per la fine della tremenda tempesta Sabine, che aveva paralizzato il traffico aereo di mezza Europa: davvero un’edizione poco fortunata, questa settantesima.
Eppure, i motivi di interesse e di novità non mancano, a cominciare dal nuovo direttore artistico, il torinese Carlo Chatrian, quarantottenne con una lunga esperienza (ha tra l’altro diretto il Festival di Locarno dal 2012 al 2018), affiancato da Mariette Rissenbeck, espertissima direttrice esecutiva, profonda conoscitrice della complessa macchina organizzativa della Berlinale.
Chatrian e i suoi hanno messo su un programma trasversale, provando a fare felici i cinefili più agguerriti, presentando i film di talentuosi registi di varia provenienza e cultura (Abel Ferrara, Hong Sansoo, Kelly Richardt, Rithy Panh, Tsai Ming-Liang), ma anche strizzando l’occhio al grande pubblico, con titoli di richiamo (“Onward – Oltre la magia” della Pixar), pellicole che giocano in casa (“Undine” di Christian Petzold, con le sue atmosfere berlinesi) e l’immancabile passerella di star: Helen Mirren, cui viene assegnato l’Orso d’oro alla carriera, Javier Bardem e Elle Fanning (protagonisti del film di Sally Potter “The Road Not Taken”), Kate Blanchett, il sempre fascinoso Johnny Depp.
Come sappiamo, l’apertura è stata dedicata al grande scrittore statunitense J.D. Salinger, di cui ricorre il decennale della scomparsa. Philippe Falardeau gli ha dedicato “My Salinger Year”, adattando il romanzo di Joanna Rakoff “Un anno di Salinger”, film fuori concorso che racconta la storia (vera) di una giovane donna che ha lavorato a contatto con lo scrittore. Nel cast spiccano Sigourney Weaver, Margaret Qualley e Douglas Booth, e l’opera è stata accolta con lunghi applausi.
Il 21 febbraio è stato il giorno di Johnny Depp, con l’anteprima mondiale di “Minamata”, film fuori concorso di Andrew Levitas, biopic incentrato sulla storia di William Eugene Smith, il fotografo americano che con uno storico reportage negli anni Settanta del Novecento denunciò i tragici effetti dell’inquinamento da mercurio causati dalla Chisso Chemical Corporation in Giappone.
Buona l’accoglienza riservata al primo film italiano in concorso: “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti, opera biografica sul pittore Antonio Ligabue, destinata a suscitare immancabili raffronti con il celebre sceneggiato Rai di Salvatore Nocita (correva l’anno 1977), in cui spiccava la straordinaria interpretazione di Flavio Bucci che, ironia della sorte, ha involontariamente imposto il suo ricordo scomparendo alla vigilia della presentazione del film di Diritti.
L’altro film nostrano è “Favolacce”, opera dei gemelli D’Innocenzo, che a Berlino si sono già fatti notare due anni or sono con lo splendido “La terra dell’abbastanza”. Stavolta Damiano e Fabio raccontano una storia di disgregazione famigliare, vista con gli occhi di un gruppo di bambini, con le muse ispiratrici di Gianni Rodari ed Italo Calvino. Caso ha voluto che protagonista di entrambi i film sia l’ottimo Elio Germano, le cui chance di aggiudicarsi il premio di miglior attore, vista la performance nei panni di Ligabue, non sono poche.
Per la verità ci sarebbe un terzo film, italiano nella produzione (Vivo Film), “Siberia” di Abel Ferrara, con un Willem Defoe che vaga solitario nella tundra gelata.
Il contingente italiano a Berlino si completa poi con Luca Marinelli, che Chatrian ha voluto nella giuria internazionale guidata dal prestigioso Jeremy Irons. Ma vanno anche ricordati i film fuori concorso: il “Pinocchio” di Matteo Garrone; “Semina il vento” del tarantino Danilo Caputo (racconto di formazione con al centro il tema dell’inquinamento ambientale e mentale della sua terra); “Palazzo di giustizia” di Chiara Bellosi (film di microresilienza giovanile e femminile); il corto “Progresso Renaissance” di Marta Anatra (interessante docufiction sull’ambiente post-industriale nel sud della Sardegna, visto con gli occhi di tre bambini che attraversano in bicicletta un paesaggio desolante); “Zeus Machine. L’invincibile” di Nadia Ranocchi e David Zamagni (del collettivo sperimentale Zapruder, che lavora sul confine fra arti figurative, performative e cinematografiche); e due documentari, “La casa dell’amore” di Luca Ferri e “Faith” di Valentina Pedicini, entrambi centrati sul tema della perniciosità del pregiudizio e della purificazione spirituale. Un parco autori giovane e agguerrito, che fa ben sperare per il futuro della cinematografia nostrana.
Inoltre, nell’ambito della speciale ricorrenza di quest’anno sono festeggiati sette registi internazionali premiati con l’Orso d’Oro, tra cui il nostro Paolo Taviani, che ha scelto come ospite Carlo Sironi, giovane regista il cui “Sole” è già stato apprezzato a Venezia e a Toronto. L’interessante pellicola è stata proiettata il 22 febbraio, dopo “Cesare deve morire”, col quale i Taviani vinsero l’Orso d’Oro del 2012. Va infine segnalata la proiezione della versione restaurata di “Il bidone” di Federico Fellini, cui ricorre il centenario della nascita.
Ecco gli altri titoli in concorso: “First Cow” di Kelly Reichardt, “Il profugo” (“The Intruder”) di Natalia Meta, “Todos os mortos” (“All the Dead Ones”) di Caetano Gotardo e Marco Dutra, “Berlin Alexanderplatz” di Burhan Qurbani, “Effacer l’historique” (“Delete History”) di Benoît Delépine e Gustave Kervern, “Le sel des larmes” (“The Salt of Tears”) di Philippe Garrel, “DAU. Natasha” di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel, “There Is No Evil” di Mohammad Rasoulof, “Undine” di Christian Petzold, “Schwesterlein” di Stéphanie Chuat e Veronique Réymond, “Domangchin yeoja” (“The Woman Who Ran”) di Hong Sang-Soo, “Irradiés” (“Irradiated”) di Rithy Panh, “Never Rarely Sometimes Always” di Eliza Hittman e “Rizi” (“Days”) di Ming-Liang Tsai.
Vedremo come andrà.
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