di Giuseppe Costigliola
Un film può essere oggetto di analisi critica sotto molteplici aspetti. Quelli squisitamente tecnici (regia, interpretazione degli attori, fotografia e via dicendo), la riuscita artistica nel modo e nella capacità di rappresentare una storia e un soggetto (tenuta della sceneggiatura, coerenza interna, ecc.), il messaggio che intende trasmettere – in ultima analisi, il significato complessivo dell’opera.
Analizzando l’ultimo lavoro di Gianni Amelio, “Hammamet”, colpisce non poco la discrasia tra la qualità degli elementi formali (della realizzazione tecnica) e la coerenza del messaggio. Si tratta di un film indubbiamente ben girato, con una fotografia all’altezza della regia, e ben recitato: gli attori sono in parte, anche se la prova di Pierfrancesco Favino rischia di oscurare tutti gli altri (ottimi comunque Giuseppe Cederna e Renato Carpentieri). È infatti davvero prodigiosa quanto a mimesi e naturalezza: sin da subito si ha la perturbante sensazione di avere davanti l’originale, più che la copia, cioè il Craxi in carne e ossa (anche se questo nome non viene mai fatto) più che l’attore che lo interpreta. Degna di menzione è poi l’arte sopraffina di Andrea Leanza, il make-up artist (come oggi vengono chiamati con un anglicismo i truccatori), che col suo trucco prostetico eguaglia in bravura un fuoriclasse quale Kazuhiro Tsuji, quello, per intenderci, che ha reso Gary Oldman così somigliante a Winston Churchill nel film “L’ora più buia”.
La lunga sceneggiatura, firmata dal regista insieme ad Alberto Taraglio, tiene nella sua dimensione narrativa, è meditata e piena di dialoghi cinematografici, a effetto, che si propongono di colpire lo spettatore dando una sensazione di profondità. Eppure, malgrado ciò, mentre la trama si dipana si percepisce come un vuoto, una cavità asettica, quasi che la vicenda rappresentata si svolgesse in una bolla, slegata dalle vicende fattuali che in realtà dovrebbero strutturarla. Questo vuoto è la Storia.
Come ha ripetutamente dichiarato, Amelio era interessato al ritratto di uno sconfitto che ha detenuto a lungo il potere, e si è concentrato sulla sfera privata del suo personaggio, colto quasi esclusivamente nei momenti dell’intimità familiare e negli ultimi mesi di vita (salvo una scena iniziale). Le vicende reali che hanno determinato la sua condizione di contumace (e non di “esule”, come stolidamente dichiarato da più parti, con clamoroso stravolgimento del diritto processuale e dell’evidenza storica: Craxi si sottrasse alla giustizia italiana) aleggiano sullo sfondo, presenze fantasmatiche che indeboliscono il racconto rendendo ambiguo il suo significato. Il film mostra quindi un punto di grande fragilità proprio in uno dei temi più cari al suo regista, il rapporto tra dimensione privata e pubblica, portando in scena quasi esclusivamente la prima e tratteggiando la seconda come mero fondale, del tutto privo di profondità.
Questo squilibrio nuoce non poco all’unità formale dell’opera, ma soprattutto risulta pernicioso dal punto di vista del giudizio storico e politico che, volente o nolente, un film con al centro la figura più rappresentativa di una lunga stagione politica, che ha peraltro maneggiato un grande potere, veicola. Scegliere di narrare una storia, che è anche storia di tutti noi, soltanto dal punto di vista del suo protagonista, senza alcun filtro, alcun contraddittorio, insistere pervasivamente sul vittimismo, sul melodramma (insostenibile la scena della Pasqua nell’“esilio”) può generare derive revisioniste, se non evidenti falsità storiche.
Al termine della visione si rimane infatti con la sgradevole sensazione che il “Presidente” (com’è sempre chiamato) sia stato vittima di un concertato attacco della magistratura (evocata come un potere intrinsecamente malvagio), di una congiura condotta non si sa bene da chi: più che la giustizia, si evoca il giustizialismo. E il finale onirico (“felliniano”, ha scritto qualcuno, ma in Fellini la dimensione onirica era strutturale, connaturata alla dimensione significativa, mentre qui appare giustapposta e involontariamente ambigua) spazza via i pallidi riferimenti storici sin lì comparsi, invalidando la possibilità di una riflessione su un periodo fatale della nostra storia recente, sulle sue conseguenze. Ancora una volta, davanti ad un film che pone al centro un protagonista, un momento della nostra storia, si prova l’amara sensazione di una rinuncia a mettersi in gioco, di una mancanza di coraggio – insomma, di un’occasione perduta.
Scegliere di non rappresentare la dimensione pubblica nella quale la vicenda privata si sostanzia, soffocare il racconto nella mera sfera intimistica (così stucchevolmente di moda oggigiorno), nuoce dunque all’estetica dell’opera. Soprattutto, rende torbido ed ambiguo il messaggio che essa finisce per trasmettere (forse al di là delle intenzioni degli autori). Prima di entrare in sala ho chiesto al giovane addetto all’ingresso se aveva visto il film, e se gli era piaciuto. L’aveva visto il giorno prima, e l’ha giudicato un po’ lento per i suoi gusti. Poi ha aggiunto una frase che mi ha dato molto da riflettere: “Parla di un periodo lontano, a chi non l’ha vissuto fa capire come sono andate le cose”.
No, ragazzo mio, le cose non sono andate così.
Giuseppe Costigliola
Hammamet: come il ritratto di uno sconfitto si trasforma in deriva revisionista
Scegliere di non rappresentare la dimensione pubblica nella quale la vicenda privata si sostanzia rende torbido ed ambiguo il messaggio
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15 Gennaio 2020 - 22.15
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