Cannes, 50 anni fa trionfava Signori e Signore

Il film di Pietro Germi, vincitore del festival nel 1966, verrà riproposto quest'anno in una versione restaurata

Cannes, 50 anni fa trionfava Signori e Signore
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13 Maggio 2016 - 16.05


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Non è semplice accostare il sarcasmo nero di Pietro Germi al realismo sentimentale di Claude Lelouch, il cinema elegante dell’autore francese contro la commedia di costume figlia dell’indignazione morale del miglior neorealismo. Eppure nel 1966 riuscì in questo doppio salto mortale ecumenico, dividendo a metà l’ambito Grand Prix del festival (l’odierna Palma d’oro) tra i due film e i due registi, il francese e l’italiano, il parigino e il genovese che prima la Sicilia e poi il Veneto adottarono un pò controvoglia. Adesso «Signore e Signori» rivive sulla Croisette – sarà proposto domani nella sezione Cannes Classics – nell’impeccabile restauro realizzato dal laboratorio dell’Immagine Ritrovata grazie all’impegno congiunto della Cineteca di Bologna, di Istituto Luce – Cinecittà e della Dear Film che lo realizzò per volontà di Robert Haggiag, produttore insieme allo stesso Germi. Il film, tra i più celebri dell’autore di «Sedotta e abbandonata», era già stato restaurato alla fine degli anni ’90 per il progetto Philip Morris, ma l’intervento attuale gli offre inaudito splendore soprattutto nelle gradazioni del bianco&nero, tanto caro al regista che l’avrebbe abbandonato solo tre anni più tardi con Serafino.

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In quel 1966 la squadra italiana di Cannes conta campioni come il Monicelli dell’Armata Brancaleone e Pasolini con Uccellacci e uccellini. Ma la schiera completa dei contendenti fa davvero impressione con artisti del calibro di David Lean (Dottor Zivago), Karel Reisz (Morgan matto da legare), Miklos Jancso (I disperati di Sandor), Jacques Rivette (La religiosa), Volker Schloendorff (I turbamenti del giovane Toerless) e soprattutto il monumentale Falstaff/Chimes at midgnight di Orson Welles. Il compito toccato a Sophia Loren, presidente di giuria, era pressoché impari, circondata com’era da una compagnia di mostri sacri della scrittura come Jean Giono, André Maurois, Marcel Pagnol e cineasti come Richard Lester o Peter Ustinov. Le riuscì di imporre un grande talento e un film-evento. Ciliegina sulla torta: lo scontro indiretto tra due registi e amici come Germi e Monicelli: Germi, che si considerava poco adatto alla commedia, aveva proposto senza successo a Monicelli di dirigere proprio Signore e Signori e sarebbe riuscito più tardi, alla vigilia della morte, offrendo il copione di Amici miei all’amico viareggino.

Oggi il film del ’66 è considerato una delle vette più alte della nostra commedia di costume, a metà tra Molière e Goldoni, ma all’uscita ebbe reazioni contrastanti, tanto più che il regista era malvisto dall’intellighenzia di sinistra e risultò inviso al Vaticano per la sua aspra satira del conformismo cattolico così come alla buona borghesia per il coraggio con cui metteva alla berlina i peggiori guasti dell’omertà sociale. La star dichiarata del film è Virna Lisi, suggerita dai produttori all’indomani del suo successo americano, ma i veri protagonisti sono gli autentici veneti del set, da Gastone Moschin a Gigi Ballista, da Carlo Bagno fino al raffinato libraio Virgilio Scapin che Germi recluta durante i sopralluoghi.

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E riesce perfino difficile distinguerli dagli altri attori professionisti, tra cui Alberto Lionello, Olga Villi, i giovanissimi Stefano Satta Flores e Giulio Questi, perfino personaggi come Alberto Rabagliati e Moira Orfei, tutti scelti con meticolosa pazienza in mesi di preparazione che poi diventano 20 settimane di lavorazione, a Treviso e dintorni, gomito a gomito con i veri personaggi delle boccaccesche situazioni messe in scena. Capolavoro a lungo dimenticato, attraversato da una vena amara che spesso caratterizza i racconti della provincia italiana dai «Vitelloni» felliniani alla «Prima notte di quiete» di Zurlini, fino alla Toscana di «Amici miei», «Signore e Signori» sta oggi nel pantheon dei film da salvare e amare. Cannes lo applaude per la sua invidiabile modernità e applaude con lui uno dei talenti più schivi e solitari del nostro cinema: un Don Chisciotte dell’etica e del rigore che amava il suo paese ma non ne tollerava i difetti atavici.

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