Il rapporto di Vittorio De Sica con Roma fu sempre straordinario e intenso. De Sica era nato a Sora dove suo padre lavorava come assicuratore. Passò la sua infanzia a Napoli dove ebbe la prima formazione e dove contrasse un amore profondo per la città e i napoletani. Poi, dopo un breve periodo trascorso a Firenze, arrivò a Roma che era un adolescente. Roma era la città della mamma che era stata indotta dall’amore per il marito, a girovagare per l’Italia, forte sempre della promessa che un giorno, il più vicino possibile, la famiglia finalmente si sarebbe stabilita nella Capitale.
Nella vita di molti grandi artisti del nostro secolo il padre è as-sente fisicamente e presente con la sua assenza che pesa molto nella vita, nel carattere e nella vocazione. Come non ricordare il padre ubria-cone che passa nella vita del piccolo Charlie Chaplin come una meteora, tanto che il grande attore lo men-zionerà nelle sue memorie soltanto una volta, di sfuggi-ta, per dare maggiore peso all’eroismo della mamma malata, che continua a lavorare per man-tenere i suoi figli, fino a quan-do non uscirà di senno proprio sul palcoscenico?
Come non pensare al giovane Antonio Clemente, in arte To-tò, che combatterà per tutta la vita per essere il principe An-tonio de Curtis?
E il padre cercato, e mai trovato, di Anna Magnani, che portò sem-pre il cognome di sua madre, che poi finirà per trasmettere anche a suo figlio Luca, come a perpetuare il primato fem-minile sulla di-scendenza?
E il padre che la piccola Norma Jean, che poi prenderà il no-me d’arte di Marilyn Monroe, ricordando la foto di un uo-mo con i baf-fetti che la mamma teneva vicino al letto, identifi-cava con Clark Gable?
Il padre di Vittorio De Sica, invece, c’è e lotta per il suo ra-gazzo, il quale, attraverso una vita dignitosamente stentata, viene prima co-stretto agli studi di ragioneria e quindi avviato alla carriera di attore.
Poi a Roma, la capitale anche dello spettacolo, dove Vittorio, da bravo figliolo, si diplomò in ragioneria. Ma è sempre il pa-dre a fargli ‘as-saggiare’ le tavole del palcosce-nico e a fargli sentire il ronzio della macchina da presa. Esige il diploma, gli parla di un futuro di-gnitoso con lo stipendio della banca ma lo sogna attore e fa di tutto perché lo diventi, fornendogli le prime oc-casioni. Durante la prima guerra mondiale (Vittorio ha 14 anni quando l’Italia entra in guerra e 17 quando la guer-ra finisce) lo inserisce in una compa-gnia di dilettanti che si esibiscono negli ospedali a favore dei sol-dati ricoverati. Vit-torio forse canta quelle canzoni che aveva impa-rato a Na-poli pro-prio dal padre che lo accompagnava al pianoforte.
E poi il debutto cinematografico nel 1918, a 17 anni, nella parte di Clemenceau ragazzo, nel film di Bencivenga Il pro-cesso Clemen-ceau.
“E questo è nato proprio dal bisogno di guadagnare un po’ di soldi”, racconta Vittorio, “perché papà era molto povero e non aveva soldi per iscrivermi all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci a Roma. Bencivenga, che era il regista, aveva preso simpatia con mio padre e con me, perché io andavo in casa Bencivenga a can-tare le canzoni napoletane accompa-gnato al pianoforte da papà. E allora gli dicemmo: ‘Caro Benciven-ga, qui non ci sono i soldi per pagare le tasse a ‘sto ragazzo’. E lui: ‘Gli faccio fare una parte in un mio film, la parte di Clemanceau ragazzo, e così gli danno i soldi per pa-gare le sue tasse’. E così mi vestirono da col-legiale, io aprivo una porta, tremavo tutto e dicevo ‘mamma!’ di-verse volte e mi dettero dodici lire. Per un interesse proprio am-ministrativo ho co-minciato l’arte cinematografica”. Galeotto il signor Umberto con le sue canzoni napoletane e con il suo piano-for-te.
Il 1923 è l’anno fatidico. Vittorio si è diplomato con qualche anno di ritardo – ma forse in conseguenza dei troppi sposta-menti di sede e di scuola – ed ha trovato, grazie all’interessa-mento del padre, che, evi-dentemente, nel vecchio ufficio ha lasciato qualche amico e un buon ri-cordo, quell’impiego alla Banca d’Italia che dovrebbe sistemarlo per tutta la vita. Ma è qui che ritorna in ballo quel ‘tarlo’ che gli ha fic-cato nella te-sta il si-gnor Umberto. L’occasione gliela fornisce un amico che gli comunica che la compagnia di Tatiana Pavlova cerca giovani gene-rici. I1 giovane Vittorio si informa di tutto, della sicu-rezza del posto, della paga (è o non è un ragioniere?) e, da bravo figliolo obbediente ed ossequioso, ne parla al padre. Se il signor Umberto avesse detto di no, probabilmente, Vit-torio avrebbe obbedi-to, avrebbe fatto la sua brava carriera in banca e l’arte italiana non avrebbe avuto uno dei suoi più im-por-tanti esponenti. Ma il signor Umberto disse di sì, con la scusa che la paga era mi-gliore di quella che pas-sava la banca. In realtà coronava il suo grande sogno: un figlio in arte (‘ figlio mio’ mi disse testual-mente ‘ero molto triste di vederti entrare in banca…l’arte è la tua strada…ti benedico…’). Un figlio al quale aveva insegnato a can-tare, che aveva accompagnato al pia-noforte, che aveva preparato uf-ficialmente come ragioniere ma nella cui testa aveva incul-cato la passione per l’arte. Se il teatro prima e il ci-nema poi hanno avuto un Vittorio De Sica lo devono a lui, al signor Umberto De Sica, a Um-berto D.
E Vittorio comprese il ruolo che ebbe il padre nella sua for-mazione : “Un poeta che concentrava su me la poesia che non avrebbe mai scritta…Posso dire per lui quel che scrisse, un giorno, Vin-cenzo Cardarelli : ‘vorrei credere che finché io sono al mondo, ci possa essere speranza per entrambi…’ “.
Il padre di Vittorio De Sica si chiamava Umberto. Nel film di Vittorio De Sica più amato e più sofferto e sicuramente uno dei suoi capolavori immortali, il pro-ta-gonista si chiama Umberto Domenico Ferrari ma ab-bre-viato suona Umberto D. come Umberto De Sica. Non c’è dubbio che De Sica ha voluto dedicare il suo film più amato e più sentito a suo padre, morto da più di venti anni, all’uomo a cui doveva molto più della vita. Al quale do-veva anche la vo-cazione artistica e l’iniziazione all’arte dell’attore. Una strada che Vittorio per-corse con grande naturalezza e, almeno appa-ren-temente, senza grandi ostacoli.
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